Prefazione
“Conosci te stesso”. All’ombra di questo motto socratico si sviluppa l’intera vicenda della filosofia occidentale – non a caso chiamiamo “presocratica” la fase che precede la straordinaria figura di Socrate, un po’ come dire che essa costituisce la “preistoria” della disciplina. Socrate propone ai sapienti (meglio: a coloro che amano la sapienza appunto perché ne sono inesauribilmente mancanti, e perciò la ricercano) di spostare il centro dell’interesse dai principi primi della natura all’essere umano: a che serve, infatti, conoscere l’intero universo, se non abbiamo conoscenza e consapevolezza di quel che noi stessi siamo?
Questa mossa teorica dal mondo all’essere umano, dall’esterno all’interno di noi stessi, è talmente fondamentale per il pensiero che, a ben guardare, la filosofia non si è mai accontentata della sua prima manifestazione. Al contrario si tratta di un movimento che si ripete continuamente, dentro quadri concettuali differenti, nella storia del pensiero occidentale. Per limitarsi a pochi esempi paradigmatici, quel gesto teorico è ripetuto da Protagora quando asserisce che l’uomo è la misura di tutte le cose; da Agostino per il quale la verità risiede – e può essere indagata solo – nell’interiorità dell’essere umano; da Cartesio, per il quale nulla è certo se non ciò che è illuminato dal faro, rivolto verso l’interno di sé, dell’introspezione; da Kant la cui rivoluzione copernicana ci chiede di volgere la nostra indagine preliminare dei fondamenti verso l’unica garanzia possibile della conoscenza, il Soggetto. E si potrebbe continuare.
E tuttavia, ogni mossa teorica rivela la verità in modo ambiguo, in parte indiretto: per quel che non dice, non meno che per ciò che dice. Conoscere significa selezionare, puntare i riflettori su qualcosa, mettendo in ombra altro. Nessun modello è la realtà, nella sua interezza. Cosa mette in ombra, incessantemente, questo insistente riportare il timone del pensiero dall’esterno all’interno di noi stessi? Ciò che occulta (ma a tratti torna a rivelare) è il legame profondo tra noi e il mondo nel quale siamo “gettati” – per usare una nota formulazione novecentesca. Noi siamo, in parte, il nostro mondo: concresciamo con esso.
Un aspetto di questa indissolubile dipendenza degli individui umani dal mondo esterno, sul quale (come ci ricorda Simone Belvedere) ha recentemente richiamato l’attenzione il filosofo inglese Andy Clark, è il fatto che siamo natural born cyborgs: siamo creature naturalmente costruite mediante l’innesto di materiali culturali provenienti dall’esterno. Un esempio fondamentale di questo fenomeno è il linguaggio: qualcosa che ci definisce profondamente come individui e come soggetti, ma che nondimeno esiste soltanto come deposito culturale delle pratiche comunicative tra esseri umani, e che dunque ciascun individuo deve apprendere dalla propria comunità. Questa dualità era già nota ad Aristotele, che ci definiva “animali linguistici”, ma che al tempo stesso aveva ben chiaro come il linguaggio è parte non della “natura” semplicemente, bensì della “seconda natura”: quella componente di costruzione culturale senza la quale la nostra natura, in sé difettiva, rimarrebbe incompleta. Qualcosa, insomma, che è natura, in quanto imposta dalla lacuna biologica che ci sbilancia verso la creazione di istituzioni culturali; e che al tempo stesso è governata da una logica, quella appunto delle istituzioni convenzionali, distinta dal piano della biologia.
Il libro di Simone Belvedere(sviluppo di una tesi di laurea che ho avuto il piacere di seguire) ci accompagna alla scoperta di questo sbilanciamento naturale verso la cultura, con modalità che si lasciano apprezzare per diverse ragioni: per il potere di sintesi;per il modo in cui tiene insieme temi contemporanei e fili del pensiero tradizionale; per il linguaggio diretto, non libresco, e però mai banale. Una prima estensione della mente,dunque, di cui questo libro rende conto è quella per cui l’individuo umano ospita da sempre dentro di sé l’altro e il mondo. Ma esso solleva anche la questione di un secondo sbilanciamento verso il mondo. Proprio in quanto animali simbolici, dotati di una seconda natura linguistica, siamo capaci di rappresentare il mondo, di farcene modelli e prevederlo, e perciò in qualche modo di assoggettarlo a noi nella misura in cui ne comprendiamo le leggi (la natura, come è noto, si comanda ubbidendole). Il linguaggio fa di noi se non i legislatori, quanto meno gli amministratori pro-tempore dei pezzi di natura su cui riusciamo ad estendere il nostro potere: una capacità simbolica di controllo e dominio sulla natura che ci inebria, e a volte ci acceca, dalla notte dei tempi.
Questo è l’elemento prometeico inscritto nel fondo della nostra natura di animali simbolici. Una natura con cui stiamo forse per ingaggiare la resa dei conti finale, nel momento in cui abbiamo sviluppato il potere di creare mondi artificiali, e persino fittizi, per noi più veri del vero. Nel momento in cui il nostro bene più prezioso, l’intelligenza, può essere riprodotta in modo disincarnato dal nostro corpo biologico. Nel momento in cui il bilancio dell’energia e della materia sul nostro pianeta rischia di schizzare fuori dalla sua orbita di equilibrio a causa del nostro eccesso di potenza.
Il libro che vi accingete a leggere ci introduce a questi disequilibri con uno sguardo filosofico. Non ci aiuta forse ad uscirne, ma di certo ci aiuta a guardarli con sguardo fermo, senza vacillare. Che è un compito degno della filosofia.
Marco Mazzone
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